Sul diritto di non esistere (2)

1.

In un articolo precedente ho fatto presente che, nell’ambito della bioetica, è affiorato da poco un nuovo tema destinato ad alimentare il conflitto tra cattolici e laici: il diritto di non esistere, vale a dire il diritto di un soggetto che viene al mondo affetto da un handicap diagnosticato o diagnosticabile in fase fetale di incolpare giuridicamente coloro che hanno deciso del suo destino. Aperta già da qualche anno in Europa, la questione è arrivata anche in Italia. Ed è arrivata, purtroppo, in termini piuttosto provinciali. In alcuni paesi europei, per esempio in Francia, laddove la legge riconosce l’handicap come un danno, alcuni figli hanno portato in tribunale i genitori contestando loro l’arbitrarietà di una scelta operata sulla loro pelle. Nessuno di essi, che io sappia, ha chiesto un risarcimento. In Italia, viceversa, il risarcimento è stato chiesto da una coppia di genitori pugliesi nei confronti del ginecologo che non li aveva adeguatamente informati sul rischio che correvano mettendo al mondo un figlio affetto da talassemia. Il tribunale ha riconosciuto la responsabilità del ginecologo, ma la somma concordata non è stata ritenuta sufficiente dalla coppia che, sulla scorta del consiglio degli avvocati, ha rilanciato la richiesta sostenendo che l’errore del medico non solo aveva impedito di procedere ad un aborto terapeutico, ma anche leso "il diritto del feto a non nascere se non sano".

Della questione è stata investita, infine, la Corte Costituzionale, che ha emesso una sentenza sulla quale occorre riflettere. Richiamandosi, infatti, alla legge 194, che vieta qualunque pratica eugenetica, la Corte è giunta alla conclusione che il nostro diritto tutela "il concepito e quindi l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui se di diritto vuol parlarsi deve parlarsi di diritto a nascere". Non esisterebbe di conseguenza un diritto della persona nata con handicap a non nascere, poiché attribuire questo diritto al concepito, "sia pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi della Costituzione".

La sentenza della Corte si conclude rilevando i limiti entro i quali in Italia è consentito di interrompere la gravidanza. Secondo tale conclusione "le eventuali anomalie del feto hanno rilevanza solo nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante e non in sé considerate con riferimento al nascituro". La legge, dunque, non riconosce diritti positivi al feto, tranne quello di venire alla luce.

E’ difficile essere d’accordo con tale sentenza del genere sia nel merito giuridico sia sul piano culturale.

Il riferimento alla legge 194 appare improprio. Il rifiuto dell’eugenesi riguarda essenzialmente la possibilità di un’adozione di tale principio da parte dello Stato. L’eugenetica, così come si è realizzata storicamente, imponeva alle persone — genitori a rischio di trasmettere una malattia ereditaria o soggetti affetti da disturbi mentali — provvedimenti (aborto, sterilizzazione) contro la loro volontà. Era insomma, né più né meno, una violenza lesiva dei diritti individuali.

Il principio eugenetico, invece, è intrinseco alla psicologia di molti soggetti che decidono di mettere al mondo un figlio. Quale genitore desidera un figlio affetto da una malformazione più o meno invalidante? Anche i cattolici accettano una circostanza del genere obtorto collo. Consentire l’aborto solo nei casi in cui l’evoluzione della gravidanza pone a rischio la salute fisica o psichica della gestante è chiaramente un éscamotage giuridico. E’ evidente, infatti, che se uno o entrambi i genitori sono terrorizzati dall’idea di addossarsi la responsabilità, vita natural durante, di un figlio handicappato, ciò significa d’emblée che la loro salute mentale riuscirebbe in qualche misura danneggiata dalla nascita del figlio stesso. Di fatto, dunque, si accondiscende il desiderio eugenetico dei genitori.

Il divieto dell’eugenetica vale per lo Stato nella misura in cui esso, in quanto rappresentante della comunità, deve offrire a tutte le persone che vengono alla luce aiuto, assistenza e opportunità di sviluppo. Dato però che sono i genitori mettere al mondo un figlio e che alcuni di essi rifiutano la possibilità, in caso di malformazione, di non riconoscerlo, affidandolo allo Stato e a persone pietose che lo assistano, il loro diritto di rifiutare di portare a termine una gravidanza il cui esito malformativo è certo, si può ritenere assoluto.

Occorre considerare, a questo riguardo, anche gli sviluppi della medicina e della genetica. La possibilità di una diagnosi fetale, che oggi esiste, all’epoca in cui fu redatta la Costituzione non esisteva. Certo, questa possibilità ha un margine d’incertezza. Alcune malattie ereditarie o genetiche (come ho riferito in un articolo precedente) hanno uno spettro di manifestazioni cliniche che non consente di definire con certezza quale sarà con precisione la loro gravità. Anche in questo caso, però, il genitore che non intende correre un rischio, ha diritto a non correrlo.

Altrove ho scritto che un diritto affrancato dai valori religiosi, il cui rispetto non riguarda lo Stato ma i credenti, non potrà che riconoscere il principio per cui sono coloro che trasmettono la vita ad avere il potere decisionale sulla venuta al mondo di un figlio. Certo, questo potere non va esercitato in maniera del tutto arbitraria. Il diritto alla vita del feto, nei casi in cui la sua nascita non comporta né danni potenziali per i genitori né esposizioni a danni per l’individuo stesso, va salvaguardato.

2.

Posto che si accetti il principio di cui sopra, c’è da chiedersi se esso possa essere esteso anche alla decisione dei genitori di far venire al mondo un essere malformato. Io ritengo che tale estensione è lecita solo a patto che i genitori, e naturalmente la Legge, riconoscano poi al figlio il diritto di contestare tale scelta.

Per quanto infatti le cure e l’assistenza fornita da parte dei genitori e delle strutture pubbliche possa essere ottimale, rimane pur sempre il diritto dell’individuo di valutare la qualità della sua vita e di protestare se essa mortifica le sue aspettative o risulta incompatibile con la sua consapevolezza di essere il trastullo del caso o il frutto di una malintesa virtù.

Sottolineando che la legge italiana non attribuisce al concepito la personalità giuridica, ma, nel suo complesso è implicitamente intesa a tutelare l’individuo sin dal suo concepimento, la sentenza della Corte Costituzionale rivela la confusione, intrinseca alla legislazione italiana, tra individualità biologica e individualità psicologica. La matrice ideologica di tale confusione è riconducibile all’influenza del cattolicesimo, che, però, a riguardo, come ho già detto in articoli precedenti, è contraddittorio. La sacralità della vita, che investe il corpo come mero veicolo dell’anima, sembra infatti non tenere in alcun conto la soggettività, vale a dire l’esperienza vissuta dell’individuo. Nell’ottica della fede, tale esperienza, nel caso essa si realizzi in associazione ad un handicap, dovrebbe rassegnarsi consapevolmente ad accettare l’imperscrutabile volontà divina. Ma c’è da chiedersi se la legge possa prescindere dal fatto che non tutti i soggetti affetti da handicap e consapevoli del loro stato sono credenti.

Certo, anche in difetto di una fede religiosa, l’handicap può essere vissuto da alcuni di essi come una sfida. Un handicappato che conosco, laureato in filosofia, sostiene che tutti gli uomini sono cavie della natura, che ciascuno, a suo modo, è fisicamente e psichicamente handicappato senza rendersene conto, e che l’handicap in senso proprio è solo una condizione che rivela i limiti con cui un individuo deve confrontarsi. Questa visione delle cose, sottilmente affascinante, è in qualche misura fondata. L’occhio umano vede solo una gamma dello spettro delle radiazioni luminose, l’orecchio identifica solo una banda dell’universo sonoro, la motilità è vincolata ad un’asimmetria tale per cui metà del corpo si può ritenere handicappata rispetto all’altra, ecc.

Il problema è che non tutti gli handicappati riescono a raggiungere questa profondità di pensiero, a prescindere da ciò che essi sarebbero potuti essere se la natura non avesse fatto i suoi giochi con il corredo genetico, e a sottrarsi al confronto con i normali. In Disumanità ho riportato una storia esemplare a questo riguardo che cito:

"In fotografia, di profilo, sono di una rara bellezza: ho i capelli corvini e riccioluti, gli occhi d’un denso azzurro, un collo vigoroso su un tronco agile e armonioso. La mia bellezza è uno dei doni di cui mi ha gratificato la natura, visto che si mantiene nonostante non mi curi e non pratichi alcuna attività sportiva.

Seduto dietro una scrivania, o raccolto in una poltrona in penombra, con le mani in grembo e le gambe accavallate, si nota appena - mi dicono - una lieve asimmetria delle spalle. Nonché confortarmi, ciò mi dispera.

La natura compensa gli eccessi con i difetti: con me si è sbizzarrita raccogliendo in un tutto due metà disarmoniche. Per un difetto genetico, il braccio e la gamba sinistra sono poco sviluppati.

Ancorché minuta, su un corpo mediocre l’anomalia si noterebbe appena. Ma io sono alto più della norma e ho una taglia vigorosa.

Non ricuso il difetto, bensì la beffa che mi pone sotto gli occhi ciò che sarei potuto essere.

Con il tempo, così come ci si adatta a tutte le contraddizioni dell’esistenza, sarei riuscito, forse, a farmi una ragione. Ma il problema fisico è esasperato dalla solitudine cui mi destina. Ho conosciuto donne che si sarebbero fatte carico dell’una o dell’altra metà, nessuna capace di accettarmi così come sono: una chimera."

In questo caso, l’asimmetria funzionale del corpo viene semplicemente amplificata da un’asimmetria strutturale. La conseguenza psicologica è però catastrofica.

4.

E’ evidente il motivo per cui in Italia il diritto di non esistere risulta così fortemente contrastato. Ammetterlo significa infatti implicitamente concedere al soggetto, sia esso handicappato o no, non solo la possibilità di denunciare la colpa di chi lo ha messo al mondo (accusa peraltro che molti adolescenti già rivolgono impietosamente ai genitori), bensì aprire la via alla rivendicazione di tale diritto sul piano dell’eutanasia. Alla rivendicazione di tale diritto, destinato inesorabilmente ad affermarsi, la società non potrà opporre all'infinito remore giuridiche. Occorrerà realizzare condizioni di vita che concedano a tutti la possibilità di dare un significato positivo, vissuto all'essere al mondo, e arrendersi al fatto che alcuni soggetti non riescano comunque a trovare questo significato. Una società futura a misura d'uomo dovrà accettare che la sfida della vita non può essere imposta a nessuno sotto forma di inutile sacrificio. E' superfluo aggiungere che una società del genere dovrà affrancarsi dallo sterile riferimento alla sacralità della vita.

Ottobre 2004